L’IMPORTANTE È FALLIRE

Sarà che questa cosa del vincere sempre ormai ha preso più spazio di quanto le spettava, ma sul serio ci stiamo scordando di quanto sia importante fallire. Il punto è che ci siamo abituati a guardare l’errore, il fallimento dal punto di vista sbagliato. Anzi, a non guardarlo proprio. Ci hanno insegnato fin troppo bene a non guardarlo, visto che abbiamo imparato fin troppo bene a inseguire gli obiettivi senza mai lasciarli allontanare, rialzarci dopo essere caduti, lasciarci le cose alle spalle e continuare determinati per la nostra strada, nonostante tutto e tutti. Abbiamo imparato che rinascere istantaneamente dopo che qualcosa è andato storto è in grado di salvarci, è l’unico (forse solo il più facile) rimedio capace di anestetizzare un effetto indesiderato, una conseguenza che non era stata messa in conto. Un po’ come quando sappiamo che per il mal di testa esistono le aspirine. Cadiamo, ci facciamo male e pensiamo a come fare finta che non sia successo nulla. Così decidiamo di rinascere, di prendere l’aspirina. Ci sentiamo di doverlo fare, subito. Dimentichiamo e andiamo oltre. Ci siamo abituati a questo frenetico rimettersi in gioco, come se la ripartenza immediata fosse a tutti i costi necessaria, come se costruire, non importa come e con quanta cura, fosse più importante di fermarsi e ri-costruire. Come se scomporre, andare a ritroso, fosse solo una perdita di tempo, e ci fosse spazio solo per comporre, di nuovo o da capo, guardando ostinatamente in avanti. Sarà che questa cosa del guardare sempre avanti non l’ho mai capita. Il punto è che ci hanno messo in testa che per vincere devi procedere e basta, proiettandoti più in là, già sul traguardo fissato. Anche questa cosa del traguardo fissato non l’ho mai capita ora che ci penso. Ci hanno fatto capire che vincere è convincere, e per farlo bisogna saper incassare colpi e sferrarli allo stesso tempo, come se tutto fosse un combattimento continuo, contro se stessi per non buttarsi mai giù e contro gli altri, per far capire che ci sei anche tu in gara, che hai tutto tranne che voglia di non metterti a correre (e concorrere), che “guarda che non mi sono buttato giù sono di nuovo qua”Sarà che questa cosa del correre perché se no ti superano tutti e tu non superi nessuno a me è sempre stata fortemente sul cazzo. Perché è un po’ come dire “dai va bene ci sto, faccio del mio meglio”, però poi sotto sotto non ti interessa nemmeno così tanto, né starci, né fare del tuo meglio. Ma lo fai comunque. Perché il tempo passato a capire cosa si vuole, quello in cui non succede fondamentalmente nulla, è tempo perso, dicono. Ma lo fai comunque. Perché dimostrare di esserci è più importante dell’esserci stesso, dicono.  Così finisci a fare ciò che non vuoi davvero, trainato dall’ambiguo meccanismo della competizione che ormai conosciamo tutti, perché devi a tal punto da sentire di volere, correre, concorrere e in fin dei conti vincere. Quando tutti intorno fanno qualcosa è facile arrivare a sentire internamente di volerlo fare a propria volta. Magari meglio, magari diversamente, magari “intanto lo faccio poi si vede come va”È esattamente qua che la propensione umana ad emulare e la necessità di rivedersi negli altri viene confusa con un desiderio profondo, assumendone le sembianze. Così, ciò che vedi fare e ciò che tu vuoi fare finiscono per non essere così diversi. Anzi, sembrano quasi essere la stessa identica cosa. Il problema è che quasi mai lo sono. Devi dirlo che stai correndo anche tu per la vittoria, quella vittoria a cui ambiscono in molti. Non sei solo. Correre, cadere, rialzarsi, costruire. E’ così che vanno le cose. Questo è quello che vediamo fare, che sentiamo fare e che di conseguenza tendiamo a fare. Il punto non considerato è che tra il cadere e il rialzarsi c’è un abisso. Non di tempo, ma di cose. Un abisso di cose dal quale abbiamo imparato a scappare, sul quale preferiamo non soffermarci. Perché ci hanno detto di non farci caso, perché dobbiamo correre, perché l’importante è rimettersi in gioco, perché tanto esistono le aspirine, perché, dopotutto, quell’abisso fa paura. C’è il serio rischio di rimare soli in quell’abisso. L’abisso è una riflessione intensa, che di solito non piace. Fermarsi dopo la caduta, qualunque essa sia, significa mettersi in discussione, sbattere contro la pesantezza del vuoto, significa perdere i riferimenti. E i riferimenti, quelli si che fanno comodo. Nell’abisso non esistono riferimenti. Così continuiamo a mettere a fuoco conseguenze visibili, tralasciando le cause profonde, che sono la cosa più importante. Così continuiamo a correre freneticamente, evitando un caffè dopo l’altro, di quelli presi al tavolo, da soli con se stessi. Quante volete invece servirebbe prendere un caffè con se stessi, averne la capacità e il coraggio. Metti che cadi, ti fai del male, non pensi più di tanto, o almeno non abbastanza intensamente, a capire cosa ti abbia fatto veramente cadere. Piuttosto strappi una scusa, un concetto, un’analisi già fatta da qualche parte in una qualche situazione simile, la rendi sufficientemente credibile per te e per gli altri e stai già guardando oltre, stai già evadendo l’abisso, rinunciando all’ennesimo caffè, stai già scappando dal limbo che separa la caduta dalla ripartenza, solo per tornare a correre. E Invece le cause contano. Stanno in quell’abisso di cose, quello che si evita in favore di una pausa molto più breve, praticamente impercettibile, in ragione di una necessità di ripartire ora, subito, all’istante, perché ci siamo convinti che non ci sia tempo. I fallimenti sono importanti, ma richiedono analisi. Perché a guardarli bene, solo a guardarli bene, servono sul serio. Quando si sbaglia, quando si cade, quando si fallisce, si rompe un equilibrio. Piccolo, grande, medio. Quello che sappiamo, quello che ci hanno insegnato, è che questo equilibrio, in un modo o nell’altro, va ricostituito subito. Per tornare a correre, superare, superarsi e vincere. E invece no. L’equilibrio è un inganno che noi stessi alimentiamo. Ti fa credere di stare bene, di essere sulla strada giusta, ti regala una stabilità illusoria, mentre ti logora dentro senza darti la possibilità di ammetterlo. Il valore di uno sbaglio non sta tanto nel capire come non commetterlo più, così come il soffocarne gli effetti a forza di aspirine per rimettersi in carreggiata non porta lontano. Il valore di uno sbaglio sta nell’opportunità di fermarsi che concede, nel percorrere l’abisso. Ed è un’opportunità unica, difficile da gestire, faticosa, difficile da cogliere, facile da evitare, ma anche l’opportunità più interessante che si possa ricevere. Fallire è una delle cose migliori che possa succederci. Ricordiamoci di farlo più spesso.

2 commenti

  1. Mi concedo la possibilità di fallire ogni singolo giorno perché è l’unico modo per accettare la mia fragilità. Mi ricorda che ho dei limiti e che molto probabilmente anche chi mi sta accanto non è perfetto e può sbagliare, anzi ne ha il diritto.
    È il primo passo per poter amare l’altro e amarsi.
    Comunque è bello leggere una logica opposta a quella che il mondo porta avanti… Come diceva qualcuno “in direzione ostinata e contraria”.

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  2. Ho letto tutte le storie che hai scritto e devo dire che sono una più interessante dell’altra. Ma questa e quella della ragazza che cammina con il vento che soffia sono le più toccanti. Soprattutto questa. Molto probabilmente lo penso perché mi ritrovo descritta in entrambe le storie. Poche ore fa stavo proprio pensando a ciò che hai appena espresso, di ricordarmi di fallire e fermarmi a riflettere sull’accaduto più spesso, perché a correre e correre , chi prima o chi dopo alla meta arriviamo tutti.

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